Mais um texto do nosso antigo aluno e grande amigo Stefano Valente, que revela o seu amor pela literatura e pela cultura de expressão portuguesa. Obrigado, Stefano!
Guimarães Rosa e la Cultura della lingua Portoghese
Scritto da Stefano Valente.
La história. Le estórias. History. Stories.
IN
http://www.kultural.eu/component/content/article/765-2014-05-04-07-18-54
Oggigiorno esistono due grandi idiomi mondiali nei quali si registra la presenza di una scissione formale della gamma di significati della stessa parola: quella che deriva dal latino historia.
Ad un primo sguardo l’esigenza sarebbe, sia per la lingua inglese che per il portoghese, quella di distinguere tra il resoconto, l’esposizione di avvenimenti reali – e a volte persino certificati da testimonianze – (history, história), e la narrazione di fatti immaginari, il racconto, la fiction, la fabula, eccetera (story, estória).
Non è possibile, tuttavia, liquidare la questione così sbrigativamente. Anzitutto è un vero e proprio dato storico il fatto che nell’inglese le due voci convivano, si potrebbe dire, da sempre, mentre il termine estória sembra rappresentare un’introduzione abbastanza recente in portoghese.
Una breve ricerca sottolinea come, con estória, si sia di fronte a un neologismo, a una forma la cui origine è caratterizzata in senso geografico. Infatti, se il Dicionário da Língua Portuguesa di Almeida Costa e Sampaio e Melo non la riporta (almeno fino alla 7ª ed., del 1994), la incontriamo per esempio nel Vocabulário Ortográfico da Língua Portuguesa della Academia Brasileira de Letras; ancora, estória viene definita un “brasilianismo” da altri dizionari, che la designano pure come portoghesizzazione dell’inglese story.
Al di là dell’essere in grado, o meno, di stabilire con precisione da quale luogo del Brasile, e quando, la forma estória si propaghi nel mondo lusofono – indagine che è compito dei linguisti di professione –, è evidente che la sua diffusione sia legata al contesto letterario, visto che si comincia a parlare di estórias a partire dall’opera del brasiliano João Guimarães Rosa (1908-1967).
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Guimarães Rosa – che qualche critico definì l’Omero, il Cervantes, il Joyce brasiliano (e purtroppo assai poco noto in Italia) – elevò nella sua scrittura il senso della parola estória alla massima potenza: già dall’antologia Sagarana (1946), proseguendo nelle Primeiras Estórias (1962: si presti attenzione al titolo), fino al successo del romanzo Grande Sertão: Veredas (1963), Guimarães Rosa sviluppa la sua narrazione come un enorme racconto composto da migliaia di voci, ciascuna delle quali riporta la sua propria e personale verità dei fatti. Quei fatti che potrebbero apparirci minuscoli, circoscritti e localizzati (anche nell’accezione di regionali), di importanza minore o addirittura inventati, fittizi. Guimarães Rosa, però, ci rivela che è proprio grazie a tutte quelle histórias minori – con l’h minuscola – che è possibile la ricostruzione della verità degli eventi. Eventi che devono essere contemplati e considerati principalmente come vissuto: perché è attraverso il vivere dei protagonisti – e delle loro anime – che il racconto della realtà prende forma, si incarna, assurge all’universalità dell’esperienza umana.
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Partendo dai racconti dei mandriani, dei bovari e delle figure marginali dell’altipiano del Sertão, Guimarães Rosa insegna che, parallelamente alla Storia dei ricchi e dei potenti – di tutti quelli che il più delle volte decidono e determinano ciò che dovrà essere scritto nei libri –, da sempre continuano a scorrere i fiumi delle storie di quelli che non hanno diritti – dei poveri, dei meno fortunati, dei subalterni. E sono quei fiumi, alla fine, e non i miliardi di pagine imposte dai vincitori o dai signori, che vanno a formare l’oceano del tempo degli uomini[1].
Pertanto, estórias non solo come invenzioni letterarie, ma soprattutto come resoconti del vissuto di chi non è degno di menzione, di chi spesso neppure riesce a comparire – a dare un segno della sua presenza sulla terra.
Da Guimarães Rosa estória, con questo valore più pieno e completo, si fa spazio con prepotenza nel linguaggio portoghese moderno. Chi l’adotta – oppure arriva “naturalmente” a far uso di questo vocabolo – sa di non poter prescindere da una matrice ben connotata di narrazione: la rappresentazione di una pluralità di voci nell’atto stesso del loro parlare. Ecco quindi l’oralità, intesa come momento di descrizione corale, a più punti di vista, attenta sul piano linguistico a riprodurre i vari idioletti.
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L’evoluzione dello stile narrativo di José Saramago – che si realizza con Levantado do Chão (trad. it. Una terra chiamata Alentejo), del 1980 – è un esempio chiaro di questo processo. L’autore portoghese passa da escritor a escriturário (un “cronista letterario”, si potrebbe dire) che dà voce agli agricoltori alentejani – che permette a decine di personaggi del misero entroterra portoghese, distanti e distanziati da tutto il resto e da tutto il buono del Paese, di esprimere le proprie verità. È, per l’appunto, un coro di parole di angustia, fatica, disinganno – e anche di speranza, ingenuità, dolcezza. Ma in Saramago questa coralità si arricchisce di un aspetto ulteriore: quello della simultaneità – o meglio, di una atemporalità – dei fatti e dei casi che sono i racconti e i vissuti dei protagonisti; in maniera che, per l’autore, il tempo non è più mera successione di prima e di dopo, una semplice linea retta di accadimenti, ma qualcosa di molto simile a uno schermo unico, sul quale si sommano e fondono volti, vicissitudini, voci.
Dopo Levantado do Chão Saramago non abbandonerà più questa oralità simultanea – non abbandonerà più la estória, e nasceranno capolavori come Memorial do Convento (1982 – Memoriale del Convento), O Evangelho segundo Jesus Cristo (1992 – Il Vangelo secondo Gesù Cristo), Ensaio sobre a Cegueira (1995 - Cecità). Grazie alla estória nel 1998 Saramago sarà insignito del Premio Nobel per la Letteratura.
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In conclusione, la coppia história-estórias è cosa assai differente dall’analoga history-stories. Lo sviluppo di questi due termini segnala, nella lingua portoghese, una consapevolezza ed un livello di esperienza linguistico-letteraria che non hanno pari in altri idiomi o culture.
Forse il percorso di una parola è connesso con avvenimenti imprevisti – o addirittura con le (s)fortune dei suoi parlanti. È comunque un fatto che una letteratura costituita non solo da histórias (dalla Storia maiuscola, e dalle sue “versioni ufficiali”) ma anche da estórias (le storie minuscole dei vinti, dei deboli), riesca a insegnare una diversa, preziosa accezione di ciò che significa «rispetto per l’altro».
[1] La scelta del termine fiumi non è casuale: A Terceira Margem do Rio (La terza sponda del fiume) è il titolo paradigmatico di uno dei racconti più famosi di Guimarães Rosa (contenuto in Primeiras Estórias, edito nel 1962). Nel 1994 ne è stato tratto l’omonimo film del regista Nelson Pereira dos Santos.