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http://www.artribune.com/2015/09/intervista-alvaro-siza-architettura-mostra-maxxi-roma/
La sacralità dell’architettura. Conversazione con Álvaro Siza
Il sacro nell’architettura è il tema al centro di una mostra che aprirà al Maxxi nell’autunno del 2016. Protagonista Álvaro Siza, il più grande architetto portoghese vivente. Lo abbiamo incontrato a Roma e ci ha svelato alcuni dettagli in anteprima. E poi ci ha raccontato il suo lavoro, le novità, la ricerca, il rapporto con Edoardo Souto de Moura, con la lucida intensità, l'umiltà e la naturalezza che solo i grandi maestri possiedono.
Scritto da Giulia Mura | sabato, 5 settembre 2015 · 0
Se dovesse usare tre parole per descrivere il suo lavoro, quali sceglierebbe?
Pazienza, concentrazione e apertura. Apertura nel senso di capacità di rispondere ai bisogni del vivere dell’uomo, attraverso soluzioni funzionali e concrete.
Il suo stile è stato più volte definito “modernismo poetico” per una certa capacità di introdurre elementi emotivi all’interno di spazialità moderniste, complesse eppure rigorose. Si ritrova in questa definizione?
Non ho mai pensato di fare poesia quando faccio architettura. La poesia è un’altra cosa. Se qualcuno poi vuole considerare il mio lavoro poetico, non è un atto volontario. Ci sono valori poetici in tutte le attività, volendo. La mia opera è un componimento che aspira ad essere un lavoro ben fatto, pensato, questo sì.
Da Le Corbusier sembra aver ereditato la passione pittorica nel decorare con propri disegni le opere, mentre da Frank Lloyd Wright espedienti spaziali quali l’alternanza tra compressione e decompressione. Quali sono stati i suoi maestri?
In effetti, negli Anni Cinquanta, quando ho cominciato a studiare, ce n’era uno solo: Le Corbusier. Questa era la situazione in Portogallo, dove per ragioni diverse l’informazione era limitata e condizionata. Dopo la guerra mondiale c’è stata invece una timida apertura, con un aumento nella produzione e diffusione di libri e riviste. Quindi in poco tempo le influenze si sono moltiplicate. Ma in assoluto sì, direi Le Corbusier.
Se lo strumento dell’architettura è la sua “capacità di vedere” (oltre e attraverso), cosa pensa della sovraesposizione mediatica e iconografica odierna? Internet e la tecnologia come hanno cambiato il modo di progettare?
Personalmente non ho nessun rapporto diretto con la tecnologia. Io disegno ancora tutto a mano, progettare con il computer mi innervosisce e basta. Nel mio studio ho circa dieci ragazzi che lavorano solo al computer, ma io non ci riesco. Per me è arrivato troppo tardi, ci lavoro indirettamente, osservando con curiosità.
Che ruolo ha il disegno a mano nel concepire l’architettura?
Disegnare è una forma di pensiero, dove l’intuizione e l’istinto hanno un ruolo importante. Juhani Pallasmaa parla di “mano pensante”: chi disegna ha questa esperienza. C’è un rapporto diretto e intenso tra la mano, il disegno e la mente. Permette scoperte che non hanno origine nel razionale, ma prendono corpo nella spontaneità che il disegno a mano possiede. Parla spesso di questo, in un testo molto piccolo e bellissimo, citando Alvar Aalto: quando in un progetto c’era qualcosa che non andava, “un intoppo”, Aalto andava a casa e cominciava a dipingere, senza pensare. Accadeva poi spesso che in questi disegni liberi nascesse spontaneamente la soluzione o l’idea capace di sbloccare l’intero processo.
In questo momento sta lavorando a una mostra che aprirà al Maxxi nel 2016 e che sarà curata da Achille Bonito Oliva. Il museo ha una struttura architettonica ben definita. In che modo pensa di relazionarsi allo spazio di Zaha Hadid?
Sto ideando un’installazione. Ho a disposizione uno spazio rettangolare, in cui si entrerà da due estremi. Dunque l’organizzazione dovrà fare i conti con questo doppio accesso che determina molte variabili, in particolare nel percorso dei visitatori. È necessario creare una globalità nella visita, nel modo in cui le fotografie e i disegni verranno esposti.
Quindi possiamo dire che si tratterà di un’architettura in scala che stabilirà una fondamentale relazione con il contesto, creando un dialogo con un altro architetto?
Certo. Dovrà prendere in considerazione lo spazio, proporzionando tutti gli elementi in relazione alla preesistenza, agli spessori, ai muri. Molto importante è il percorso, come la gente arriva, come si muove, le indicazioni, insieme con il materiale che sarà in esposizione.
Non sarà un’antologica come quella al Mart di Rovereto dello scorso anno. Svilupperà invece un tema: il sacro nell’architettura, o piuttosto, la religiosità nell’architettura. Alcune opere o documenti si riferiscono alla religiosità, all’intensità dello spazio. Non ho ancora deciso il tipo di materiale da esporre, ma probabilmente all’ingresso ci saranno una serie di foto di cinque edifici in costruzione, non finiti, con la rugosità tipica delle strutture ancora in progress, e anche edifici in rovina. Mi interessa mettere i risalto la dualità tra il processo del costruire e quello opposto del degrado.
Si tratta di lavori che appartengono al passato?
Sì, in questo caso quasi tutti del passato, ma alcuni di un passato recente. Come la stazione della metropolitana di Napoli, dove convivono la contemporaneità della nuova costruzione e la consolidazione delle rovine. O ancora un edificio a me caro, che ha più di vent’anni: la Facoltà di architettura di Porto, con una carrellata di immagini durante la sua costruzione, prima che fosse terminato. Forse inserirò anche un lavoro in Sicilia, che è la consolidazione delle rovine di una chiesa dopo il terremoto. Come può notare, tutto ha a che vedere con il tema del tempo che scorre.
Nella sua carriera ha avuto la possibilità di realizzare diversi edifici con destinazione museale. In ognuno di questi traspare una volontà di far collaborare le discipline, mettendo in reciprocità magnetica lo spazio, le opere e la città. Cosa lega l’arte all’architettura?
Per me architettura è arte. I musei hanno una funzione molto chiara: sociale, artistica, e sono luoghi d’incontro. Ormai possiedono apparati specifici, come bookshop e caffetterie, ma devono assolvere in particolare alla finalità di aprirsi all’arte. Qui al Maxxi, museo di arte e architettura contemporanee, non possiamo sapere sempre quale sarà il programma dei prossimi anni. Per questo motivo lo spazio deve essere capace di accogliere qualsiasi mostra o invenzione con elasticità. Deve essere capace di ricevere, che non significa neutralità. Piuttosto, penso io, lo spazio del museo deve avere un suo carattere e un’apertura al dialogo con gli artisti. Quando l’artista fa un’installazione, deve stabilirsi una conversazione proficua tra lo spazio e l’opera che lo trasforma. Lo stesso vale per il curatore che organizza la mostra: deve avere una visione globale dell’intero processo, a cavallo tra le discipline.
Non concordo affatto con l’idea che il museo debba essere assolutamente neutrale e senza definizione spaziale. Talvolta sento addirittura persone che dicono che il museo deve essere “brutto”, per non entrare in competizione con l’arte. Ma non c’è competizione! Se una mostra è buona, nessuno guarderà i dettagli della struttura, se non come un valore aggiunto.
Ha detto che se il lavoro di gruppo non funziona, l’architettura non funziona. Ci racconti il suo rapporto di collaborazione con Edouardo Souto de Moura…
La collaborazione è iniziata quando lui era molto giovane, uno studente. Il primo progetto insieme è stato un housing sociale fatto dopo la rivoluzione, negli Anni Settanta. Ho percepito che lui era un creatore, e cosi l’ho incoraggiato a lasciare il mio studio, dove era dipendente, per aprirne uno tutto suo. Da allora spesso lavoriamo insieme. Alcune volte perché siamo invitati a collaborare, come nel caso di Napoli, dove ho l’impressione che la committenza non sia sicura che io possa arrivare alla fine dei lavori e nel dubbio preferisce affiancarmi a un progettista più giovane [ride, N.d.R.]. Ad ogni modo, mi piace lavorare con lui, è una cosa molto naturale, senza cerimonie, diretta: se non siamo d’accordo su qualcosa, ce lo diciamo apertamente. Una cosa curiosa che posso raccontare è relativa alla nostra collaborazione per il Serpentine Pavilion a Londra, nel 2005. All’inaugurazione un giornalista disse a Edouardo: “Questo lavoro non sembra tuo”, e, in contemporanea, un altro disse a me la stessa cosa! Direi che l’opera sembrava nostra, ecco. Quindi, una forma di collaborazione ben riuscita.
Parliamo di Napoli, con cui ha avuto un rapporto stretto di realizzazioni – dal Museo Madre alla stazione della metropolitana. Un città vitale, caotica, intensamente mediterranea.
Io amo Napoli. Non solo la sua bellezza, la complessità, ma il suo essere cosciente che sottoterra ci sia un’altra città o altre città. Questo si riflette in superficie, per la persistenza delle attività dell’architettura. È un luogo straordinario, si percepisce la vitalità dei suoi abitanti e della sua gente. Dietro tutti i drammi c’è una vitalità potente.
Tutti dicono che Napoli è un caos, nelle strade talvolta non esistono marciapiedi, passano persone a piedi, in macchina, in motorino. Una confusione che lì è moltiplicata, il respiro della città rispetto al movimento, un transito perenne. Ma c’è una cosa che fa pensare: a Napoli non ci sono poi così tanti incidenti! Questo, paradossalmente, indica una cultura di convivenza e non di marginalizzazione.
Cosa significa lavorare lì come architetto? Questa sensazione così forte che emerge dalla città è capace di influenzare l’opera?
Inevitabilmente sì, e in diverse forme. Una diretta, pratica: quando si scava per le fondazioni, appaiono gli spagnoli, gli arabi, i greci, i romani, i normanni… che inevitabilmente significano compromessi o limitazioni al lavoro. In Italia per forza di cose esiste una grande cura rispetto a quest’aspetto, con le Soprintendenze molto forti, qualche volta troppo forti.
Questa ricchezza patrimoniale, questa densità data dalle sovrapposizioni esistenti e la cura che ne consegue qualche volta snerva gli architetti – me compreso. Devo però riconoscere che le istituzioni giocano un ruolo molto importante nella conservazione e nella valorizzazione.
Una delle migliori cose che l’Europa unita ha istituito a livello educativo e universitario è stato l’Erasmus, che ha dato la possibilità a tutti gli studenti di viaggiare e conoscere il mondo in un modo prima inaspettato. Cosa pensa dell’università di oggi?
Credo che l’Erasmus sia l’unico programma veramente efficace fatto dalla Comunità Europea. È straordinario, ha sviluppato lo scambio diretto di studenti, professori e informazioni, e questo determinerà un’influenza enorme nell’architettura, in modi che forse ancora non abbiamo visto nella loro piena potenzialità.
È recentissima la notizia che costruirà un grattacielo con appartamenti di lusso a New York. Si tratterebbe del suo primo progetto americano. Cosa può dirci a proposito?
È una piccola torre per le dimensioni abituali americane, appena 35 piani. In un posto buono, nel centro di Manhattan, più vicino al fiume Hudson. È un lotto stretto e pertanto, per il poco spazio disponibile, l’ho pensata molto esile, leggera, con proporzioni interessanti. Sarà elegante.
E in Italia, ci sono in cantiere altri progetti?
Sì, un progetto di edilizia abitativa a Gallarate, al quale sto lavorando insieme a Roberto Cremascoli, un altro architetto con cui amo molto collaborare. Si tratta di 19 appartamenti nel centro storico, tra via Roma e via Postporta, distribuiti in due fabbricati di quattro piani fuori terra. L’impianto tipologico è pensato per dare grande importanza agli spazi esterni, ai percorsi pubblici e privati, riproponendo il cortile e i vicoli del borgo antico.
Quale può essere considerata l’opera della sua vita?
All’età di ottantadue anni è una domanda che mi viene posta spesso. Non ce n’è una nello specifico, in realtà. L’opera della mia vita sono tutti i lavori che ho fatto. Ognuna apporta un’esperienza e un momento nel percorso che influenzerà il seguente e che è stato influenzato dal passato.
Giulia Mura
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