Maria Vittoria Querini
PORTOGALLO
Il viaggio continua…
Porto, barco rabelo sul fiume Douro
Siediti al sole. Abdica
e sii re di te stesso.
F.
Pessoa
Il ricordo
Il ricordo più antico che ho del
Portogallo è il giallo luminoso delle ginestre che una volta costeggiavano un
tratto di strada nei pressi della frontiera di Badajoz. E poi si sa, la
ginestra è simbolo di rimembranze.
Vidi per la prima volta il Tejo
dal ponte 25 Abril, che allora si chiamava Salazar. Nessuno avrebbe potuto
dirmi, a quel tempo, che il destino mi avrebbe concesso di attraversare il
ponte infinite volte, tutte le volte che un’ansia tenace di conoscere questa
terra avrebbe reso “viaggio” un’escursione, una gita, un breve tragitto e non
soltanto un percorso che unisce due confini. Perché - e ce lo dice Antonio
Tabucchi[1]
- “Un luogo non è mai solo ‘quel’ luogo:
quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo
dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati”.
I ricordi di quel primo viaggio
sono vivi e presenti, ancora oggi che l’immagine del Portogallo si è fatta
adulta. Sono tornata dopo molti anni e per molte volte. L'incontro con Lisbona
è sempre stato dall'alto: il grande ponte, la statua di Cristo-Rei che “spalanca ai gabbiani e agli aerei la
misericordia di cemento delle sue braccia”, la torre di Belém, i tetti rossi, le case bianche, la cupola di
Estrela, l'enorme macchia verde di Monsanto li vedo ormai con gli occhi della
memoria, non c'è più bisogno che guardi. Ma lo stupore di allora è rimasto
intatto, il senso di un'infinita scoperta che cambia il modo di viaggiare.
Saramago dice che il viaggio non finisce mai, solo i viaggiatori finiscono.
Lisbona è città che non si
dimentica ma non si può raccontare, come saudade
è parola che non si può tradurre. Nessuno dovrebbe mai chiedere che cosa ci sia
da vedere in una città come questa. Basterebbe percorrere in un giorno di sole
(e in Portogallo ce ne sono tanti) la rua de Ouro, la rua do Carmo fino al
largo do Chiado, il reticolo di stradine in Alfama e basterebbe salire
sull'electrico n. 28, tragitto Estrela-Graça, per avere già una prima risposta.
Le pietre del Terreiro do Paço
ricoprono passi che non si sono perduti, neppure dopo che terremoto e maremoto,
insieme, spazzarono via nel 1755 l'architettura ariosa di questa piazza, “la
più nobile d’Europa”. L’ombra di un giardino vicino alla Sé Catedral invita ad
una sosta prima di raggiungere, poco più in alto, il Miradouro di Santa Luzia.
Proprio in questo belvedere (mai parola fu più calzante) sopravvive uno
grandioso azulejo del Terreiro, così com'era prima che venisse distrutto. Il
fiume che si vede da qui è già premessa di mare, Mar de Palha per via del colore. La luce è intensa e l’oceano “si
sente” vicino.
Mi trovavo in Portogallo, dalle
parti di Tomar, quando la notte tra il 24 e 25 agosto del 1988 scoppiò
l'incendio che distrusse una parte della Baixa Pombalina di Lisbona. C'ero
stata il giorno prima a passeggiare, tornai dopo alcuni giorni dall'incendio. Le
macerie ancora sprigionavano fumo e con il fumo salivano al cielo i frammenti
inceneriti delle stoffe preziose, dei ricami vetusti, degli spartiti gloriosi
di Valentim de Carvalho, dei sigari della Casa Havanesa, insieme con il sospiro
speziato della rua do Alecrim. Dall'alto dell'elevador de Santa Justa, un
balcone provvidenziale salvato al disastro, guardavo una rua do Carmo
sconvolta. Gli eleganti palazzi del settecento erano gabbie vuote, perfino i
muri - i pochi rimasti in piedi - erano deformati per lo sforzo, quello
estremo, di resistere alle fiamme che avevano dilatato di secoli lo spazio di
un giorno. Era un commiato definitivo anche per me, che mentalmente ripetevo
quell'unica parola, Adeus, apparsa a
grandi lettere su un giornale di Lisbona.
Pessoa
Un giorno, mentre stavo per
entrare al Teatro Sâo Carlos, guardando per caso verso il palazzo di fronte che
chiude la piazza proprio come una quinta di teatro, mi fulminò qualcosa di
familiare, una sagoma nota. Riconobbi all'istante la casa natale di Fernando
Pessoa: perché, prima che l’inquietudine del poeta, mi ha sempre colpito
l’infanzia dell’uomo. I primi anni in Sud Africa, la morte precoce dei fratelli
e del padre, la pazzia della nonna Dionísia, quel trasbordare di casa in casa,
tutto confluiva per me in un affresco di famiglia dal destino severo ma che,
proprio per questo, ha guadagnato il mio affetto. I caffè che Pessoa
frequentava a Lisbona ci sono ancora, certo un po’ trasformati. Passai un
pomeriggio intero al Martinho da Arcada bevendo un caffè dopo l’altro. Ma
il vecchio locale con le pareti di legno, gli specchi e i tavoli di marmo non
trasmetteva nulla, non aveva più incanto. Forse perché, lì fuori, le Ophélie
Queiroz passavano veloci in minigonna e stivali da guerra. E nell'Arcada, con
gli ultimi raggi di sole, entrò solo un sospiro di vento salmastro.
Il primo studioso straniero di
Pessoa, il francese Pierre Hourcade, conobbe il poeta proprio al Martinho da
Arcada nel 1930 e così lo ricorda: «Lo credevo piccolo, malinconico e scuro, soggetto
al funesto fascino della saudade con cui si intossica tutta la sua
razza, e d’improvviso mi imbatto nel più vivo degli sguardi, in un sorriso
sicuro e malizioso, in un volto che trabocca da una vita segreta». E racconta
come si sentisse affascinato dinanzi a lui: «Da quell’uomo malaticcio, i cui
occhi erano protetti da spesse lenti, irradiava un incanto indefinibile fatto
di estrema cortesia, di perfetta semplicità, di buonumore – sì, anche di
buonumore, in quell’uomo disperato e torturato come nessun altro – e di una
sorta di intensità febbrile che ardeva sotto la facciata apparente delle buone
maniere»[2].
E proprio gli occhiali, oggetto
negletto ma indispensabile per guardare la vita, o per vivere visivamente
la propria morte, furono l’ultima angosciosa richiesta di Pessoa prima di
morire: “Dammi i miei occhiali”. Quasi come avvenne per Goethe che,
spegnendosi, chiedeva “Più luce…”.
Oggi Fernando António Nogueira
Pessoa, dopo aver concesso per anni le sue spoglie al Prazeres (nome gentile
per un cimitero), trova finalmente pace e risposte nella quiete del Mosteiro
dos Jerónimos, sotto l'arco di un tempio. Come Corradino di Svevia.
Il mare e la terra
Ma Lisbona non è il Portogallo.
Poco più a nord di Lisbona uno sperone di roccia (Cabo da Roca) segna l'estremo
occidente d'Europa. Qui “la terra si congeda” come dice giustamente Saramago e,
prima di lui, lo ricordò Camôes. Capitai lì, con propositi celebrativi, un
primo dell'anno, con il cappello in mano come suol dirsi, ad esigere la mia
ricompensa di stupore. Di fronte a queste grandiose solitudini di mare -
succede anche a Cabo Espichel, a Cabo Sâo Vicente, soprattutto a Sagres – si
animano le ombre dei primi navigatori portoghesi, in fila composta dietro
l'Infante D. Henrique come nel Padrâo
di Lisbona. Ma ora non ci sono più caravelle, solo qualche petroliera
all'orizzonte e gli uccelli a nidificare nel vento.
Per chi ama i crostacei c’è il
richiamo di Ericeira, una roccaforte assediata dall’oceano che ruggisce sotto i
suoi balconi. A Ericeira c'era una casetta...e sicuramente c'è ancora, se il
mare e le intemperie sono stati magnanimi. Una casa bianca, abbandonata, con
finestre a misura di bambola. Una parte del muro di cinta nasconde un piccolo quintal, e lì dietro è facile immaginare
un grappolo d'uva dorata, un rametto di rosmarino, un Sâo José de azulejo, come
recita una canzone assai popolare. Sotto una finestra c'è una lapide a ricordo
di una breve sosta che qui si concesse la Regina D. Amelia prima di imbarcarsi
per l'esilio, il 5 ottobre del 1910. Ma oltre a una Regina, molti se ne sono
andati da questa Europa “estrema”, spesso approdando sull’altra sponda, che è
poi l’America. Destino amaro questo, narrato e tramandato dal canto portoghese
per eccellenza (il fado) che per la
sua grande interprete, Amalia Rodrigues, fu soprattutto “forma di vita”.
Torniamo alla terra. Per
descrivere l’Alentejo in poche parole, quelle di José Saramago, che qui è nato,
sono le migliori: «E' una terra tanto grande, a voler fare confronti, piena
soprattutto di cocuzzoli, con un po' d'acqua torrentizia, ché quella del cielo
può essere che manchi come avanzi, e verso il basso si stempera in pianura,
levigata come la palma di una mano, anche se molte di esse, per destino,
tendono col tempo a chiudersi, adattandosi all'impugnatura della zappa e della
falce e del rastrello… Quanto paesaggio. Un uomo vi può girovagare tutta una
vita e non trovarsi mai, se è nato smarrito»[3].
Io vi entrai per la prima volta
in uno di quei giorni freddi nei quali ci si difende con alimenti vigorosi,
come caldo e broa e vino rosso. Uno
dei piatti alentejani è il maiale con le vongole, un insolito connubio, ma sarà
perché, pur dalla terra, non ci si dimentichi del mare. Nel corso degli anni ho
potuto conoscere quasi tutte le città dell'Alentejo, da Beja a Évora (Ebora Cerealis, tanto per essere chiari) visitata più volte, ad Alter do
Châo, a Portalegre, ad Estremoz. Dalle vallate ogni tanto si erge una collina
coperta di case bianche, come un'altana da cui spingere lontano lo sguardo. Una
di queste è Monsaraz, altana tra le più belle, monumento e sintesi del talento
architettonico degli alentejani.
Le città di Porto, Coimbra,
Aveiro, Valença do Minho, Viana do Castelo, tutta la costa da Sines a Cabo Sâo
Vicente, un po’ di Algarve (quello meno celebrato), la mitica Sagres, dove
Henrique il Navigatore progettava di dominare l’Atlantico, meriterebbero una
descrizione particolare; ma questa non è una guida, è solo volontà di fissare
le immagini prima che si dissolvano col passare degli anni, o prima che le
città e i luoghi cambino, per destino appunto.
Posso dire di conoscere il
Portogallo meglio di altri paesi e di conoscere anche città appena sfiorate.
Come Mértola, che una fittissima nebbia di gennaio sottrasse alla mia vista
quasi per dispetto improvviso, e pensare che la monaca Mariana Alcoforado - che
in verità guardava molto al di là della propria cella - riusciva a vederla dal
convento di Beja. Come Sortelha, tenera e accogliente benché rivestita di
granito. Come Vila Nova de Milfontes, con le sue spiagge dorate. Come Amarante,
dal nome che evoca un tramonto, inserita lassù nel cuore verde del Portogallo.
Come le città e i villaggi del Minho e del Douro “tra i cui vigneti l'Europa
si è smarrita…”, così scrisse qualcuno che aveva capito.
La valle del Douro (coinvolgente
scenario anche per “Vale Abraão” [4]) è
infatti un cosmo primordiale dove il fiume - che ancor prima dell’uomo ha
disegnato questa terra - lambisce i socalcos
di uve pregiate mentre risale, sempre più selvaggio, verso la sua sorgente
spagnola.
E’ vero, il viaggio non finisce
mai. Percorro le vecchie strade sempre in attesa di nuove suggestioni, mentre
gocce di saudade mi colpiscono a
tradimento. Allora mi chiedo perché sia stato un medico alsaziano, e non un
portoghese, ad inventare tre secoli fa la parola “nostalgia”.
[1] A.
TABUCCHI (1943-2012), scrittore e accademico italiano, considerato uno tra i
maggiori conoscitori, critici e traduttori di Fernando Pessoa.
[4] Vale Abraão (Valle di Abramo) è un romanzo della
scrittrice portoghese Agustina Bessa-Luís da cui il
regista Manoel de Oliveira ha tratto l’omonimo film.
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