No passado dia 3 de Dezembro, o Diparmento di Letterature Comparate da Università degli Studi di Roma Tre promoveu um Convénio Internacional, dedicado aos "Percorsi di Interculturalità: Scrittori, Critici e Traduttori a confronto", curado pelos Professores Marinella Rocca Longo e Giuliano Soria.
Da parte da tarde, a Professora Doutora Giulia Lanciani, fez uma intervenção sobre "La poetica di João Guimarães Rosa: una lettura della vita come "soprasenso". L'approccio di un traduore", que atraiu numerosas pessoas à Sala Ignazio Ambrogio.
Com a gentilíssima autorização da Professora, Via dei Portoghesi publica aqui o texto-base da intervenção.
GIULIA LANCIANI
La Poetica di João Guimarães Rosa:
una lettura della vita come "soprasenso". L'approccio di un traduttore.
Ha cinquantasette anni J.G.R. quando muore di infarto a Rio de Janeiro la notte del 19 novembre del 1967, tre giorni dopo la cerimonia di insediamento all’Accademia Brasiliana di Lettere. Era nato a Cordisburgo, nello stato di Minas Gerais, il 27 giugno del 1908. Laureato in medicina, esercita per alcuni anni la professione in città dell’interno mineiro, poi intraprende la carriera diplomatica, che lo porterà in Europa e a Bogotà, fino al suo rientro in Brasile, dove ricoprirà importanti cariche e svolgerà missioni per conto del Ministero degli Esteri.
Cinquantanove anni di vita, appena venti di creazione letteraria – un periodo breve, se si vuole, nella carriera di uno scrittore, sufficiente tuttavia a consacrarlo come il più grande fra i narratori brasiliani di ogni tempo, uno dei maestri della prosa moderna.
Cercherò di chiarire le ragioni di questa mia audace affermazione, che risulta però tale solo se non si conosce G.R.
Il nodo centrale della produzione di G.R. e anche il romanzo più noto in Italia, è senza dubbio il Grande sertão: veredas; ma in tutta la sua scrittura si rinviene un’identica sfida: inventare un linguaggio in grado di leggere la vita nel suo “sopra-senso”. Egli dice: “Tutti i miei libri sono semplici tentativi di avvicinare e scrutare il mistero cosmico, questa cosa mutevole, impossibile, perturbatrice, ribelle a qualsiasi logica, che è la cosiddetta realtà”. A sostenere e a nutrire la assombrosa (la prodigiosa, la sbalorditiva, la stupefacente) scrittura rosiana è la fiducia illimitata nel potere significante della parola.
Una fiducia direi connaturata, innata: in una intervista per il giornale scolastico (Guimarães Rosa ha nove anni di età e frequenta a Belo Horizonte il Colégio Arnaldo gestito da padri di nazionalità tedesca) egli dichiara: “Falo português, alemão, francês, inglês, espanhol, italiano, esperanto, um pouco de russo; leio sueco, holandês, latim e grego (mas com o dicionário agarradado), entendo alguns dialetos alemäes; estudei a gramática do húngaro, do árabe, do sanscrito, do lituânio, do polonês, do tupi, do hebraico, do japonês, do tcheco, do finlandês, do dinamarquês… Acho que estudar o espírito e o mecanismo de outras línguas ajuda muito a compreensão mais profunda do idioma nacional, ajuda a compreensão do mundo”. Al di là dell’evidente esagerazione, ciò che interessa sottolineare è l’importanza che egli attribuisce alla lingua come strumento di conoscenza e di autoconoscenza. La lingua, la scrittura.
Ma che cosa è la scrittura rosiana? è viaggio, cammino lungo i pericolosi versanti del vivere, viaggio iniziatico nel labirinto delle cose per tentare di svelarne l’essenza, il reale assoluto, ciò che in esse esiste di magico e si rivela solo a chi ha l’audacia e l’amore di penetrarle, di trasporre il silenzio oltre il quale si cela il mistero poetico dell’esistere, della vita. «Quando nada acontece, há um milagre que não estamos vendo», egli dice. Ovvero: Quando nulla accade, c’è un miracolo che non stiamo vedendo.
«I miei libri sono avventure – afferma G.R. –; per me sono la più grande avventura. Scrivendo scopro sempre un nuovo pezzo di infinito, vivo nell’infinito, il momento non conta». Egli è il viator per eccellenza, il viaggiatore che attraversa il sertão (geograficamente il sertão è l’interno poco popolato del Brasile, coperto da foresta o completamente arido, ma è una realtà così dinamica e multiforme, che sfugge a una visione predeterminata che ne definisca i limiti in modo inequivoco, è una metafora del Brasile, ma anche della realtà tutta); egli attraversa il sertão, dicevo, ossia il mondo, perché il sertão non ha porte né finestre, “sertão é do tamanho do mundo”.
“Tudo é e não é”, scrive Guimarães Rosa: in lui, la logica dell’alternativa si trasforma in logica additiva, nessun elemento ne esclude un altro, tutte le veredas sono le differenti parcelle dello stesso sertão, che è in ogni parte, che è dovunque. Si sgretola così il carattere dicotomico della logica razionalista, incapace di conglobare l’essere e il non essere: nella logica rosiana gli opposti non si escludono ma coesistono e si alimentano reciprocamente.
Per dire questa realtà nella sua totalità, nel suo assoluto, è necessario superare la povertà della parola che si limita a dire verità stabilite, è necessario liberare la parola dalla contaminazione del tempo che ne lede e ne condiziona inevitabilmente il senso, è necessario articolare questo senso in un movimento circolare ed eterno, creare insomma una parola che non conosca frontiere tra le cose e i nomi che le designano, tra l’essenza delle cose e la sua rappresentazione verbale, inventare il linguaggio di un mondo senza limiti dove l’uomo-umano compie la traversata della vita. “Solo rinnovando la lingua si può rinnovare il mondo” – afferma lo scrittore in una intervista al critico tedesco Günter Lorenz –, conoscere le realtà più profonde: bisogna recuperare l’illesa lama del vocabolo, poco vista e ancor meno udita”, ossia recuperare l’infanzia della parola, la potenzialità primigenia della parola, corrotta e oscurata dall’azione del tempo. “Língua e vida são uma coisa só; quem não faz da língua o espelho da sua personalidade, não vive, e como a vida é uma corrente contínua, um desenvolvimento contínuo, assim a língua também deve se desenvolver continuamente… Minha língua brasileira é a língua do homem de amanhã, depois da sua purificação”.
La parola poetica, pertanto, necessita di un processo di depurazione attraverso l’eliminazione degli elementi che nascondono la sua illesa lama, così come necessita di rivitalizzazione attraverso il sondaggio, l’esplorazione delle sue illimitate potenzialità. Illimitate potenzialità in cui lo scrittore ripone piena fiducia “Hoje um dicionário é ao mesmo tempo a melhor antologia lírica – dice al sopracitato intervistatore “Cada palavra é, segundo sua essência, um poema. Pense só em sua gênese. No dia em que completar uns anos, publicarei um livro, meu romance mais importante: um dicionário. E este fará as vezes da minha autobiografia” (“Oggi un dizionario è al contempo la migliore antologia lirica. Ogni parola è, a seconda della sua essenza, una poesia. Si pensi solo alla sua genesi. Il giorno in cui avrò vissuto un certo numero di anni, pubblicherò un libro, il mio romanzo più importante: un dizionario. E questo farà le veci della mia autobiografia). Come dire che la lingua nel suo divenire profondo è la sua vita. Egli riconosce nella parola, e in particolare nel nome – che indica la vera relazione tra le cose –, un potere mitico, che fa del suo linguaggio la lingua della metafisica: “Minha linguagem deve ser a língua da metafísica… eu procedo assim, como um cientista que também não avança simplesmente com a fé e com o pensamento agradáveis a Deus. Nós, o cientista e eu, devemos encarar Deus e o infinito, pedir-lhe contas e, quando necessário, corrigi-los também, se quisermos” (Lorenz).
Come agisce nella pratica della scrittura Guimarães Rosa? Viator lui, come si è detto, viatores i suoi personaggi, che si vanno delineando a mano a mano che scoprono la realtà che attraversano, un territorio apparentemente e inizialmente vuoto – immenso sertão –, dove le valenze emergono poco a poco fino a riempire le zone che conquistano e riscattano alla dimensione del nulla. La scrittura, così concepita, ha la finalità di aprire lo spirito all’esperienza di una rivelazione, organizza i frammenti della propria esperienza in una forma che è espressione dell’infinita completezza di cui ciascuno di noi porta dentro di sé indelebile saudade, nostalgia. Una conoscenza delle cose che è, ripeto, anche autoconoscenza: non c’è da una parte il mondo e dall’altra l’uomo che lo attraversa. L’uomo è al tempo stesso viaggiatore e viaggio, oggetto e soggetto della traversata, nel cui processo egli si fa: il sertão è dentro di noi.
Per cogliere «o quem das coisas» è necessario pertanto divenire eterni transeunti (“travessia”, traversata, è la parola che conclude Grande sertão: veredas), eterni transeunti in cerca dello spazio al di là dei limiti del contingente, dell’effimero, oltre la soglia del razionale, dove questa cosa chiamata realtà, si fa presagio, attesa, esiste come subito dono di verità. Dove il visibile procede in sintonia con la vita interiore, e lo sguardo riacquista la capacità di trasformare la frustrazione in possesso, la privazione in pienezza; lo sguardo, insomma, constata, conosce e dilata l’individuale verso l’universale.
Sulla scrittura rosiana si potrebbe parlare per un tempo senza fine, ma il nostro è limitato, anzi limitatissimo per argomenti del genere. Mi permetto, allora, di concludere con il riferimento al libro che ho tradotto di G.R., Primeiras Estórias, che in italiano, nelle due pubblicazioni che ha avuto, la prima con la SEI, la seconda negli Oscar Mondadori, ha avuto titoli più seducenti.
Primeiras Estórias è una raccolta di racconti, legati comunque tra loro in modo da costituire una unica storia. Racconti popolati di folli e di bambini – questi ultimi dotati in genere di poteri straordinari -, in cui gli uni e gli altri si confondono nella comune capacità di penetrare il significato occulto delle cose, di raggiungere “la terza sponda del fiume”. All’autore essi non interessano come casi clinici, bensì come terreno propizio all’invasione dell’irrazionale, del magico, in una parola, della poesia. Una follia, dunque, intesa come facoltà di valicare la superficie della realtà, di abitarla dall’interno. Follia che investe anche il mezzo espressivo, lacerato e ricomposto ideograficamente per moltiplicarne le eventualità, per esaltarne il ruolo assegnatogli di strumento utile all’appropriazione dell’essenza delle cose e del loro nome: un linguaggio partecipe della follia e dei suoi poteri atti a diradare il buio circostante: “Quel che c’è intorno a noi è l’ombra più fitta: cose generali”.
Il processo di decodificazione di una tale struttura linguistica esigeva quindi e innanzitutto una lettura testuale altrettanto ardita: non lineare, ma globale, l’unica in grado di svelare le connessioni sia orizzontali che verticali esistenti nella pagina, l’unica che permettesse un’esecuzione e una fruizione polifonica del testo.
Tradurla esigeva dunque una decrittazione del segno poetico, ma anche una sua trasposizione (in italiano) che non obbedisse alle pretese e ai canoni del senso comune. Sebbene fosse in me ostinata e continua la tentazione di intervenire sul tessuto trasgressivo del testo per conferirgli un crisma di leggibilità, ho cercato tuttavia di non concedere spazio a percorsi significanti agevoli, a connotazioni aggiuntive o a funzioni accessorie che lo travisassero e lo snaturassero sostanzialmente. In altri termini, ho cercato – nei limiti del possibile – di aderire alla pratica infrattiva dell’originale, evitando di costruire pacificanti panorami di senso.
Ci sono riuscita? Non lo so. Ma posso dire che delle molte, moltissime traduzioni che ho fatto nella mia vita, questa è la sola che ancora mi soddisfi quasi totalmente, cosa rarissima in me e credo in qualsiasi traduttore dotato di buon senso, il quale ben conosce la precarietà di una traduzione, nel senso che mentre l’opera d’arte è atemporale, essa è invece “nel tempo”, eco o memoria autonoma dell’originale. Fatto effimero – poiché il linguaggio e il gusto cambiano e la rendono più o meno rapidamente “arcaica” –, la traduzione si rivolge nella storia a un dato pubblico in un dato periodo; quando dunque si parla di fedeltà all’opera, si deve intendere anche fedeltà al proprio tempo. Ovvero, tradurre significa anche individuare un punto di equilibrio tra l’esigenza di non tradire il dettato originale e la necessità di rendere accettabile al lettore l’opera stessa, senza eccessive manipolazioni di arcaicizzazione o di ammodernamento.
Guimarães Rosa è l’ultimo alfiere della parola poetica, della parola che sgretolando il compatto muro di gomma della logica quotidiana, sgretola anche le sequenze lessicalizzate della memoria e diviene atto vitale di invenzione, strumento capace di dire il mondo.
Nella letteratura europea è già l’epoca dei silenzi, il linguaggio umano cozza contro la barriera dell’indicibile, è l’epoca dell’incomunicabilità, della sfiducia nel potere significante della parola: un’epoca segnata dai silenzi di Harold Pinter, dai paradossi verbali di Ionesco, dalle desolate lande bechettiane, ma anche dal cinema di Antonioni, dall’arte informale, dagli enigmatici tagli di Lucio Fontana, eccetera eccetera.
Cinquantanove anni di vita, appena venti di creazione letteraria – un periodo breve, se si vuole, nella carriera di uno scrittore, sufficiente tuttavia a consacrarlo come il più grande fra i narratori brasiliani di ogni tempo, uno dei maestri della prosa moderna.
Cercherò di chiarire le ragioni di questa mia audace affermazione, che risulta però tale solo se non si conosce G.R.
Il nodo centrale della produzione di G.R. e anche il romanzo più noto in Italia, è senza dubbio il Grande sertão: veredas; ma in tutta la sua scrittura si rinviene un’identica sfida: inventare un linguaggio in grado di leggere la vita nel suo “sopra-senso”. Egli dice: “Tutti i miei libri sono semplici tentativi di avvicinare e scrutare il mistero cosmico, questa cosa mutevole, impossibile, perturbatrice, ribelle a qualsiasi logica, che è la cosiddetta realtà”. A sostenere e a nutrire la assombrosa (la prodigiosa, la sbalorditiva, la stupefacente) scrittura rosiana è la fiducia illimitata nel potere significante della parola.
Una fiducia direi connaturata, innata: in una intervista per il giornale scolastico (Guimarães Rosa ha nove anni di età e frequenta a Belo Horizonte il Colégio Arnaldo gestito da padri di nazionalità tedesca) egli dichiara: “Falo português, alemão, francês, inglês, espanhol, italiano, esperanto, um pouco de russo; leio sueco, holandês, latim e grego (mas com o dicionário agarradado), entendo alguns dialetos alemäes; estudei a gramática do húngaro, do árabe, do sanscrito, do lituânio, do polonês, do tupi, do hebraico, do japonês, do tcheco, do finlandês, do dinamarquês… Acho que estudar o espírito e o mecanismo de outras línguas ajuda muito a compreensão mais profunda do idioma nacional, ajuda a compreensão do mundo”. Al di là dell’evidente esagerazione, ciò che interessa sottolineare è l’importanza che egli attribuisce alla lingua come strumento di conoscenza e di autoconoscenza. La lingua, la scrittura.
Ma che cosa è la scrittura rosiana? è viaggio, cammino lungo i pericolosi versanti del vivere, viaggio iniziatico nel labirinto delle cose per tentare di svelarne l’essenza, il reale assoluto, ciò che in esse esiste di magico e si rivela solo a chi ha l’audacia e l’amore di penetrarle, di trasporre il silenzio oltre il quale si cela il mistero poetico dell’esistere, della vita. «Quando nada acontece, há um milagre que não estamos vendo», egli dice. Ovvero: Quando nulla accade, c’è un miracolo che non stiamo vedendo.
«I miei libri sono avventure – afferma G.R. –; per me sono la più grande avventura. Scrivendo scopro sempre un nuovo pezzo di infinito, vivo nell’infinito, il momento non conta». Egli è il viator per eccellenza, il viaggiatore che attraversa il sertão (geograficamente il sertão è l’interno poco popolato del Brasile, coperto da foresta o completamente arido, ma è una realtà così dinamica e multiforme, che sfugge a una visione predeterminata che ne definisca i limiti in modo inequivoco, è una metafora del Brasile, ma anche della realtà tutta); egli attraversa il sertão, dicevo, ossia il mondo, perché il sertão non ha porte né finestre, “sertão é do tamanho do mundo”.
“Tudo é e não é”, scrive Guimarães Rosa: in lui, la logica dell’alternativa si trasforma in logica additiva, nessun elemento ne esclude un altro, tutte le veredas sono le differenti parcelle dello stesso sertão, che è in ogni parte, che è dovunque. Si sgretola così il carattere dicotomico della logica razionalista, incapace di conglobare l’essere e il non essere: nella logica rosiana gli opposti non si escludono ma coesistono e si alimentano reciprocamente.
Per dire questa realtà nella sua totalità, nel suo assoluto, è necessario superare la povertà della parola che si limita a dire verità stabilite, è necessario liberare la parola dalla contaminazione del tempo che ne lede e ne condiziona inevitabilmente il senso, è necessario articolare questo senso in un movimento circolare ed eterno, creare insomma una parola che non conosca frontiere tra le cose e i nomi che le designano, tra l’essenza delle cose e la sua rappresentazione verbale, inventare il linguaggio di un mondo senza limiti dove l’uomo-umano compie la traversata della vita. “Solo rinnovando la lingua si può rinnovare il mondo” – afferma lo scrittore in una intervista al critico tedesco Günter Lorenz –, conoscere le realtà più profonde: bisogna recuperare l’illesa lama del vocabolo, poco vista e ancor meno udita”, ossia recuperare l’infanzia della parola, la potenzialità primigenia della parola, corrotta e oscurata dall’azione del tempo. “Língua e vida são uma coisa só; quem não faz da língua o espelho da sua personalidade, não vive, e como a vida é uma corrente contínua, um desenvolvimento contínuo, assim a língua também deve se desenvolver continuamente… Minha língua brasileira é a língua do homem de amanhã, depois da sua purificação”.
La parola poetica, pertanto, necessita di un processo di depurazione attraverso l’eliminazione degli elementi che nascondono la sua illesa lama, così come necessita di rivitalizzazione attraverso il sondaggio, l’esplorazione delle sue illimitate potenzialità. Illimitate potenzialità in cui lo scrittore ripone piena fiducia “Hoje um dicionário é ao mesmo tempo a melhor antologia lírica – dice al sopracitato intervistatore “Cada palavra é, segundo sua essência, um poema. Pense só em sua gênese. No dia em que completar uns anos, publicarei um livro, meu romance mais importante: um dicionário. E este fará as vezes da minha autobiografia” (“Oggi un dizionario è al contempo la migliore antologia lirica. Ogni parola è, a seconda della sua essenza, una poesia. Si pensi solo alla sua genesi. Il giorno in cui avrò vissuto un certo numero di anni, pubblicherò un libro, il mio romanzo più importante: un dizionario. E questo farà le veci della mia autobiografia). Come dire che la lingua nel suo divenire profondo è la sua vita. Egli riconosce nella parola, e in particolare nel nome – che indica la vera relazione tra le cose –, un potere mitico, che fa del suo linguaggio la lingua della metafisica: “Minha linguagem deve ser a língua da metafísica… eu procedo assim, como um cientista que também não avança simplesmente com a fé e com o pensamento agradáveis a Deus. Nós, o cientista e eu, devemos encarar Deus e o infinito, pedir-lhe contas e, quando necessário, corrigi-los também, se quisermos” (Lorenz).
Come agisce nella pratica della scrittura Guimarães Rosa? Viator lui, come si è detto, viatores i suoi personaggi, che si vanno delineando a mano a mano che scoprono la realtà che attraversano, un territorio apparentemente e inizialmente vuoto – immenso sertão –, dove le valenze emergono poco a poco fino a riempire le zone che conquistano e riscattano alla dimensione del nulla. La scrittura, così concepita, ha la finalità di aprire lo spirito all’esperienza di una rivelazione, organizza i frammenti della propria esperienza in una forma che è espressione dell’infinita completezza di cui ciascuno di noi porta dentro di sé indelebile saudade, nostalgia. Una conoscenza delle cose che è, ripeto, anche autoconoscenza: non c’è da una parte il mondo e dall’altra l’uomo che lo attraversa. L’uomo è al tempo stesso viaggiatore e viaggio, oggetto e soggetto della traversata, nel cui processo egli si fa: il sertão è dentro di noi.
Per cogliere «o quem das coisas» è necessario pertanto divenire eterni transeunti (“travessia”, traversata, è la parola che conclude Grande sertão: veredas), eterni transeunti in cerca dello spazio al di là dei limiti del contingente, dell’effimero, oltre la soglia del razionale, dove questa cosa chiamata realtà, si fa presagio, attesa, esiste come subito dono di verità. Dove il visibile procede in sintonia con la vita interiore, e lo sguardo riacquista la capacità di trasformare la frustrazione in possesso, la privazione in pienezza; lo sguardo, insomma, constata, conosce e dilata l’individuale verso l’universale.
Sulla scrittura rosiana si potrebbe parlare per un tempo senza fine, ma il nostro è limitato, anzi limitatissimo per argomenti del genere. Mi permetto, allora, di concludere con il riferimento al libro che ho tradotto di G.R., Primeiras Estórias, che in italiano, nelle due pubblicazioni che ha avuto, la prima con la SEI, la seconda negli Oscar Mondadori, ha avuto titoli più seducenti.
Primeiras Estórias è una raccolta di racconti, legati comunque tra loro in modo da costituire una unica storia. Racconti popolati di folli e di bambini – questi ultimi dotati in genere di poteri straordinari -, in cui gli uni e gli altri si confondono nella comune capacità di penetrare il significato occulto delle cose, di raggiungere “la terza sponda del fiume”. All’autore essi non interessano come casi clinici, bensì come terreno propizio all’invasione dell’irrazionale, del magico, in una parola, della poesia. Una follia, dunque, intesa come facoltà di valicare la superficie della realtà, di abitarla dall’interno. Follia che investe anche il mezzo espressivo, lacerato e ricomposto ideograficamente per moltiplicarne le eventualità, per esaltarne il ruolo assegnatogli di strumento utile all’appropriazione dell’essenza delle cose e del loro nome: un linguaggio partecipe della follia e dei suoi poteri atti a diradare il buio circostante: “Quel che c’è intorno a noi è l’ombra più fitta: cose generali”.
Il processo di decodificazione di una tale struttura linguistica esigeva quindi e innanzitutto una lettura testuale altrettanto ardita: non lineare, ma globale, l’unica in grado di svelare le connessioni sia orizzontali che verticali esistenti nella pagina, l’unica che permettesse un’esecuzione e una fruizione polifonica del testo.
Tradurla esigeva dunque una decrittazione del segno poetico, ma anche una sua trasposizione (in italiano) che non obbedisse alle pretese e ai canoni del senso comune. Sebbene fosse in me ostinata e continua la tentazione di intervenire sul tessuto trasgressivo del testo per conferirgli un crisma di leggibilità, ho cercato tuttavia di non concedere spazio a percorsi significanti agevoli, a connotazioni aggiuntive o a funzioni accessorie che lo travisassero e lo snaturassero sostanzialmente. In altri termini, ho cercato – nei limiti del possibile – di aderire alla pratica infrattiva dell’originale, evitando di costruire pacificanti panorami di senso.
Ci sono riuscita? Non lo so. Ma posso dire che delle molte, moltissime traduzioni che ho fatto nella mia vita, questa è la sola che ancora mi soddisfi quasi totalmente, cosa rarissima in me e credo in qualsiasi traduttore dotato di buon senso, il quale ben conosce la precarietà di una traduzione, nel senso che mentre l’opera d’arte è atemporale, essa è invece “nel tempo”, eco o memoria autonoma dell’originale. Fatto effimero – poiché il linguaggio e il gusto cambiano e la rendono più o meno rapidamente “arcaica” –, la traduzione si rivolge nella storia a un dato pubblico in un dato periodo; quando dunque si parla di fedeltà all’opera, si deve intendere anche fedeltà al proprio tempo. Ovvero, tradurre significa anche individuare un punto di equilibrio tra l’esigenza di non tradire il dettato originale e la necessità di rendere accettabile al lettore l’opera stessa, senza eccessive manipolazioni di arcaicizzazione o di ammodernamento.
Guimarães Rosa è l’ultimo alfiere della parola poetica, della parola che sgretolando il compatto muro di gomma della logica quotidiana, sgretola anche le sequenze lessicalizzate della memoria e diviene atto vitale di invenzione, strumento capace di dire il mondo.
Nella letteratura europea è già l’epoca dei silenzi, il linguaggio umano cozza contro la barriera dell’indicibile, è l’epoca dell’incomunicabilità, della sfiducia nel potere significante della parola: un’epoca segnata dai silenzi di Harold Pinter, dai paradossi verbali di Ionesco, dalle desolate lande bechettiane, ma anche dal cinema di Antonioni, dall’arte informale, dagli enigmatici tagli di Lucio Fontana, eccetera eccetera.
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