Arménio Vieira
All'inferno
238 pp., 16,00 €
ISBN 978-88-97365-50-1
All'inferno
238 pp., 16,00 €
ISBN 978-88-97365-50-1
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Arménio
Vieira (Praia, Capo Verde 1941) è l’unico autore capoverdiano insignito
del prestigioso Prémio Camões, il più importante riconoscimento alla
carriera letteraria del mondo di lingua portoghese, assegnato dal
Portogallo e dal Brasile insieme. Poeta refrattario al metro, ma votato
ad una sensibilità epigrafica e aforistica, ha al suo attivo una
bibliografia non vastissima, ma di grande impatto nel panorama delle
lettere capoverdiane. In prosa ha al suo attivo O Eleito do Sol (1990) e questo All’inferno (1999), di cui non solo siamo davanti alla prima traduzione italiana, ma alla prima traduzione dal portoghese tout-court.
Se è vero che la tradizione letteraria capoverdiana è stata una delle prime cronologicamente ad emergere tra quelle che al tempo erano ancora colonie portoghesi, e da sempre si è contraddistinta per un’apertura verso le letterature europee e americane, l’opera tutta di Arménio Vieira sembrerebbe ancor più esemplare in tal senso, opponendosi a certe tendenze di ritratto della caboverdianidade in letteratura: leggere Vieira significa imbattersi continuamente nella citazione esplicita o implicita, nel richiamo costante alla tradizione letteraria occidentale: e questo non coinvolge soltanto (e, anzi, lo fa soltanto marginalmente) la tradizione portoghese o brasiliana, al contrario, da Omero a Nabokov, da Joyce a DeFoe, da Goethe a Kafka, il panorama è quello di un certo “canone occidentale” che anche al lettore italiano suona tutt’altro che estraneo.
All’inferno è un non-romanzo, o meglio un anti-romanzo, da quanto si evince dalle coordinate che lo stesso autore e il mutevole narratore non si esimono a fornirci, che fa perno su un topos letterario consolidato: il protagonista viene imprigionato in una villa dalla quale potrà uscire soltanto se riuscirà a scrivere un romanzo che possa essere giudicato come un capolavoro. Il protagonista in questione, che, a capitoli alterni, porta il nome di Robinson (il protagonista del primo romanzo moderno) e quello di Leopold (il protagonista dell’ultimo...), tenterà di fare il suo meglio, in un labirinto letterario e testuale che quest’Africa insulare ci regala come uno strano e perturbante sogno di noi stessi sognato sulla linea del tropico...
da Nota previa
«L’elaborazione di questo volume richiede alcuni chiarimenti.
Per iniziare, ho immaginato un personaggio recluso, anonimo, o quasi anonimo, e senza memoria. Gli ho dato un enigma da svelare – quello della sua stessa identità – e un ragguardevole insieme di libri attraverso i quali egli, spogliato di tutto il resto, è riconoscibile come un uomo di molte letture. Obbligato a cercare la libertà attraverso la scrittura, egli tenta, ma con mediocre successo in ragione di una sovraccarica mentale di informazioni libresche (forse un mero alibi). La mancanza di una reale vocazione di scrittore – il poeta nasce, come si suol dire – sarà, forse, la spiegazione più giusta.
[…]
Obbligato a scrivere un romanzo, a somiglianza del protagonista del libro in oggetto, non l’ho fatto, perché non l’ho voluto fare o perché non l’ho potuto fare, in virtù di una serie di ragioni: a) il romanzo, genere discendente dall’epopea, nella sua qualità di narrazione in prosa di fatti eroici, ha già dato quello che aveva da dare, s’è fatto caduco; b) nelle sue versioni realista e naturalista, Balzac, Flaubert e Zola hanno già avuto da molto tempo i loro giorni di gloria; c) nel suo versante psicologico, esso ha raggiunto il suo apice in Dostoevskij, Proust e Faulkner; d) Joyce, lo sperimentatore faustico, lo ha condotto ai limiti; e) lasciando il resto da parte, diciamo per finire che Borges, l’ultimo dei grandi narratori, preferì non scrivere romanzi, e piuttosto, in loro luogo, elaborare riassunti di ipotetici romanzi e commentarli.
Che cosa fare, dunque? Continuare a scrivere romanzi, facendo finta che nessuno ne ha scritti prima di noi? Ignorando, per esempio, che le semplici cacofonie bastavano per far rimanere Flaubert insonne? Che l’ambizione di una scrittura pura andava annullando Valéry? Che Mallarmé sognò il libro irrealizzabile? Che il Finnegans di Joyce è la romanzesca quadratura del cerchio? Che i cultori del nouveau roman, il quale s’è anche detto du regard, altro non erano che noioserrimi funamboli in caduta mortale?
La supposizione che l’essenziale è già stato scritto ci lascia sconsolati. Ma, comunque sia, coltiviamo il nostro giardino. È quel che han fatto Hemingway, Camus, García Márquez, Saramago e tanti altri, con il Nobel o senza. E se la sono cavata proprio bene».
Se è vero che la tradizione letteraria capoverdiana è stata una delle prime cronologicamente ad emergere tra quelle che al tempo erano ancora colonie portoghesi, e da sempre si è contraddistinta per un’apertura verso le letterature europee e americane, l’opera tutta di Arménio Vieira sembrerebbe ancor più esemplare in tal senso, opponendosi a certe tendenze di ritratto della caboverdianidade in letteratura: leggere Vieira significa imbattersi continuamente nella citazione esplicita o implicita, nel richiamo costante alla tradizione letteraria occidentale: e questo non coinvolge soltanto (e, anzi, lo fa soltanto marginalmente) la tradizione portoghese o brasiliana, al contrario, da Omero a Nabokov, da Joyce a DeFoe, da Goethe a Kafka, il panorama è quello di un certo “canone occidentale” che anche al lettore italiano suona tutt’altro che estraneo.
All’inferno è un non-romanzo, o meglio un anti-romanzo, da quanto si evince dalle coordinate che lo stesso autore e il mutevole narratore non si esimono a fornirci, che fa perno su un topos letterario consolidato: il protagonista viene imprigionato in una villa dalla quale potrà uscire soltanto se riuscirà a scrivere un romanzo che possa essere giudicato come un capolavoro. Il protagonista in questione, che, a capitoli alterni, porta il nome di Robinson (il protagonista del primo romanzo moderno) e quello di Leopold (il protagonista dell’ultimo...), tenterà di fare il suo meglio, in un labirinto letterario e testuale che quest’Africa insulare ci regala come uno strano e perturbante sogno di noi stessi sognato sulla linea del tropico...
da Nota previa
«L’elaborazione di questo volume richiede alcuni chiarimenti.
Per iniziare, ho immaginato un personaggio recluso, anonimo, o quasi anonimo, e senza memoria. Gli ho dato un enigma da svelare – quello della sua stessa identità – e un ragguardevole insieme di libri attraverso i quali egli, spogliato di tutto il resto, è riconoscibile come un uomo di molte letture. Obbligato a cercare la libertà attraverso la scrittura, egli tenta, ma con mediocre successo in ragione di una sovraccarica mentale di informazioni libresche (forse un mero alibi). La mancanza di una reale vocazione di scrittore – il poeta nasce, come si suol dire – sarà, forse, la spiegazione più giusta.
[…]
Obbligato a scrivere un romanzo, a somiglianza del protagonista del libro in oggetto, non l’ho fatto, perché non l’ho voluto fare o perché non l’ho potuto fare, in virtù di una serie di ragioni: a) il romanzo, genere discendente dall’epopea, nella sua qualità di narrazione in prosa di fatti eroici, ha già dato quello che aveva da dare, s’è fatto caduco; b) nelle sue versioni realista e naturalista, Balzac, Flaubert e Zola hanno già avuto da molto tempo i loro giorni di gloria; c) nel suo versante psicologico, esso ha raggiunto il suo apice in Dostoevskij, Proust e Faulkner; d) Joyce, lo sperimentatore faustico, lo ha condotto ai limiti; e) lasciando il resto da parte, diciamo per finire che Borges, l’ultimo dei grandi narratori, preferì non scrivere romanzi, e piuttosto, in loro luogo, elaborare riassunti di ipotetici romanzi e commentarli.
Che cosa fare, dunque? Continuare a scrivere romanzi, facendo finta che nessuno ne ha scritti prima di noi? Ignorando, per esempio, che le semplici cacofonie bastavano per far rimanere Flaubert insonne? Che l’ambizione di una scrittura pura andava annullando Valéry? Che Mallarmé sognò il libro irrealizzabile? Che il Finnegans di Joyce è la romanzesca quadratura del cerchio? Che i cultori del nouveau roman, il quale s’è anche detto du regard, altro non erano che noioserrimi funamboli in caduta mortale?
La supposizione che l’essenziale è già stato scritto ci lascia sconsolati. Ma, comunque sia, coltiviamo il nostro giardino. È quel che han fatto Hemingway, Camus, García Márquez, Saramago e tanti altri, con il Nobel o senza. E se la sono cavata proprio bene».
Edizioni dell'Urogallo
Corso Cavour, 39
06121 Perugia
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