José Saramago scrive (sul tema della Fiera del Libro di Torino) "Io, Pessoa e gli specchi. La nostra ricerca non ha mai fine" - Corriere della Sera 7-5-2009 a p.49.
Segnalazione: Roberta Spadacini.
Saramago: io, Pessoa e gli specchi La nostra ricerca non ha mai fine
«Fissare i nostri volti riflessi significa capire chi siamo veramente»
o, gli altri», tema della Fiera del libro di Torino, coincide con gli argomenti prevalenti delle mie opere, che possono riassumersi nella frase: l’umanità non è stata educata alla pace, ma alla guerra e ai conflitti. L’«altro» rappresenta, potenzialmente, sempre il nemico. Condizione che ci portiamo dietro perennemente. Una volta, durante una conferenza, ebbi modo di ascoltare una frase sensata: «L’altro esiste, sono io, in quanto noi siamo anche l’altro dell’altro». Pienamente d’accordo. Perciò lavoriamo con la parola, senza esitare, a condizione che le armi rimangano lontane dal nostro tavolo. Alla fine, fra tutti si dovrà pure trovare un accordo di convivenza in cui nulla è scritto, dove ci stia tutto, anche l’indipendenza, poiché il futuro è sempre incerto. Ricordiamo i versi di Antonio Machado: «Caminante no hay camino / Se hace camino al andar». Insomma, ogni giorno si percorre un nuovo cammino. La giornata sarà lunga ma non demoralizziamoci. Arriveremo ogni giorno, ogni giorno ripartiremo. Più in là, sempre più in là.
Fernando Pessoa era un uomo che conosceva le lingue e componeva versi. Si guadagnò il pane mettendo parole al posto delle parole, scrisse versi come si fanno i versi, come se fosse stata la prima volta. Cominciò chiamandosi Fernando, persona come tutti. Naturalmente la sua vita era fatta di giorni e sappiamo che i giorni anche se uguali non sono mai gli stessi. Non sorprende, quindi, che un bel giorno Fernando, passando davanti ad uno specchio vi abbia scorto, di striscio, un’altra persona: un uomo lo osservava da dentro lo specchio e quell’uomo non era lui. Molto ci si attende dalle figure che appaiono negli specchi, tranne che parlino. E affinché quei due, Fernando e l’immagine riflessa, non rimanessero lì a guardarsi per l’eternità, Pessoa disse: « Mi chiamo Ricardo Reis». L’altro sorrise e scomparve. Dopo poco spuntò un’altra immagine. Pessoa si affrettò a dire: «Mi chiamo Alberto Caeiro». L’altro non sorrise, gesticolò un po’ e sparì.
Non c’è due senza tre, aveva sentito dire Fernando Pessoa e rimase in attesa. La terza figura ritardò qualche secondo ad apparire. Fernando disse: «Mi chiamo Álvaro de Campos». Le sue ultime parole prima di morire furono: «Datemi gli occhiali». Fino a oggi nessuno s’è chiesto perché li volesse. È possibile che la sua intenzione fosse quella di guardarsi allo specchio per conoscere l’identità dell’«altro». La Parca non gli diede tempo. Oltretutto, la stanza non disponeva neppure di uno specchio. Pessoa mai riuscì ad avere la certezza di sapere chi veramente fosse stato, sebbene questo dubbio ci permetta di vedere un po’ più chi siamo.
«Fissare i nostri volti riflessi significa capire chi siamo veramente»
o, gli altri», tema della Fiera del libro di Torino, coincide con gli argomenti prevalenti delle mie opere, che possono riassumersi nella frase: l’umanità non è stata educata alla pace, ma alla guerra e ai conflitti. L’«altro» rappresenta, potenzialmente, sempre il nemico. Condizione che ci portiamo dietro perennemente. Una volta, durante una conferenza, ebbi modo di ascoltare una frase sensata: «L’altro esiste, sono io, in quanto noi siamo anche l’altro dell’altro». Pienamente d’accordo. Perciò lavoriamo con la parola, senza esitare, a condizione che le armi rimangano lontane dal nostro tavolo. Alla fine, fra tutti si dovrà pure trovare un accordo di convivenza in cui nulla è scritto, dove ci stia tutto, anche l’indipendenza, poiché il futuro è sempre incerto. Ricordiamo i versi di Antonio Machado: «Caminante no hay camino / Se hace camino al andar». Insomma, ogni giorno si percorre un nuovo cammino. La giornata sarà lunga ma non demoralizziamoci. Arriveremo ogni giorno, ogni giorno ripartiremo. Più in là, sempre più in là.
Fernando Pessoa era un uomo che conosceva le lingue e componeva versi. Si guadagnò il pane mettendo parole al posto delle parole, scrisse versi come si fanno i versi, come se fosse stata la prima volta. Cominciò chiamandosi Fernando, persona come tutti. Naturalmente la sua vita era fatta di giorni e sappiamo che i giorni anche se uguali non sono mai gli stessi. Non sorprende, quindi, che un bel giorno Fernando, passando davanti ad uno specchio vi abbia scorto, di striscio, un’altra persona: un uomo lo osservava da dentro lo specchio e quell’uomo non era lui. Molto ci si attende dalle figure che appaiono negli specchi, tranne che parlino. E affinché quei due, Fernando e l’immagine riflessa, non rimanessero lì a guardarsi per l’eternità, Pessoa disse: « Mi chiamo Ricardo Reis». L’altro sorrise e scomparve. Dopo poco spuntò un’altra immagine. Pessoa si affrettò a dire: «Mi chiamo Alberto Caeiro». L’altro non sorrise, gesticolò un po’ e sparì.
Non c’è due senza tre, aveva sentito dire Fernando Pessoa e rimase in attesa. La terza figura ritardò qualche secondo ad apparire. Fernando disse: «Mi chiamo Álvaro de Campos». Le sue ultime parole prima di morire furono: «Datemi gli occhiali». Fino a oggi nessuno s’è chiesto perché li volesse. È possibile che la sua intenzione fosse quella di guardarsi allo specchio per conoscere l’identità dell’«altro». La Parca non gli diede tempo. Oltretutto, la stanza non disponeva neppure di uno specchio. Pessoa mai riuscì ad avere la certezza di sapere chi veramente fosse stato, sebbene questo dubbio ci permetta di vedere un po’ più chi siamo.
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