Sull'onda delle commemorazioni degli ottant'anni sulla morte di Fernando Pessoa (Lisbona, 13 giugno 1888 – Lisbona, 30 novembre 1935), la nostra amica Maria Vittoria Querini ci invia il testo che ora pubblichiamo - e ringraziamo.
OMAGGIO A PESSOA
Un giorno, mentre stavo per entrare al teatro São Carlos, guardando per caso verso il palazzo di fronte che chiude la piazza proprio come una quinta di teatro, mi fulminò qualcosa di familiare, una sagoma nota. Riconobbi all'istante la casa natale di Fernando Pessoa: perché, prima che l’inquietudine del poeta, mi ha sempre colpito l’infanzia dell’uomo. I primi anni in Sud Africa, la morte precoce dei fratelli e del padre, la pazzia della nonna Dionísia, quel trasbordare di casa in casa, tutto confluiva per me in un affresco di famiglia dal destino severo ma che, proprio per questo, ha guadagnato il mio affetto. I caffè che Pessoa frequentava a Lisbona ci sono ancora, certo un po’ trasformati. Passai un pomeriggio intero al Martinho da Arcada bevendo un caffè dopo l’altro. Ma il vecchio locale con le pareti di legno, gli specchi e i tavoli di marmo non trasmetteva nulla, non aveva più incanto. Forse perché, lì fuori, le Ophélia Queiroz passavano veloci in minigonna e stivali da guerra. E nell'Arcada, con gli ultimi raggi di sole, entrò solo un sospiro di vento salmastro.
Il primo studioso straniero di Pessoa, il francese Pierre Hourcade, conobbe il poeta proprio al Martinho da Arcada nel 1930 e così lo ricorda: «…Lo credevo piccolo, malinconico e scuro, soggetto al funesto fascino della saudade con cui si intossica tutta la sua razza, e d’improvviso mi imbatto nel più vivo degli sguardi, in un sorriso sicuro e malizioso, in un volto che trabocca da una vita segreta». E racconta come si sentisse affascinato dinanzi a lui: «Da quell’uomo malaticcio, i cui occhi erano protetti da spesse lenti, irradiava un incanto indefinibile fatto di estrema cortesia, di perfetta semplicità, di buonumore – sì, anche di buonumore, in quell’uomo disperato e torturato come nessun altro – e di una sorta di intensità febbrile che ardeva sotto la facciata apparente delle buone maniere»[1].
E proprio gli occhiali, oggetto negletto ma indispensabile per guardare la vita, o per vivere visivamente la propria morte, furono l’ultima angosciosa richiesta di Pessoa prima di morire: “Dammi i miei occhiali”. Quasi come avvenne per Goethe, che spegnendosi chiedeva “Più luce…”.
Oggi Fernando António Nogueira Pessoa, dopo aver concesso per anni le sue spoglie al Prazeres (nome insolito per un cimitero), trova finalmente pace e risposte nella quiete del Mosteiro dos Jerónimos, sotto l'arco di un tempio.
Maria Vittoria Querini
(1998)
[1] CRESPO A., La vita plurale di Fernando Pessoa,
Ed. A. Pellicani 1997, p. 287
1 commento:
grazie e complimenti per questo pezzo molto ben scritto e carico di immagini. chissà perché ho sempre immaginato che l'ortonimo F.Pessoa avrebbe potuto far sue le parole che si racconta siano state pronunciante da H. de Balzac sul letto di commiato il 18 agosto 1850: ...otto giorni di febbre! Avrei avuto ancora il tempo di scrivere un libro...
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