martedì 31 luglio 2012

Stefano Valente traduz Rodrigues Miguéis

Mais uma esplêndida tradução de STEFANO VALENTE publicada no blog IL SOGNO DEL MINOTAURO: http://sognodelminotauro.blogspot.it/2012/07/riso-del-cielo-jose-rodrigues-migueis.html

Parabéns, Stefano!

Riso del cielo — José Rodrigues Migueis


Lungo i marciapiedi di New York, al di sopra delle stazioni e delle gallerie della subway, si aprono grandi sfiatatoi con grate attraverso i quali cade di tutto: il sole e la pioggia, il chiaro di luna e la neve, guanti, occhiali e bottoni, carte, chewing gum, tacchi di scarpe da donna che restano impigliati, e persino soldi. Talvolta, laggiù in fondo, nell’immondizia che si accumula o in pozze d’acqua stagna, brillano monete di nichel e addirittura d’argento. I ragazzi s’inginocchiano col naso incollato alle grate, cercando di arraffare tesori nell’oscurità da cui spira un alito umido e oleoso e l’odore dei freni bruciati. Compiono prodigi d’abilità e tenacia per pescare le monete perdute. Alcuni hanno successo, ma poi si azzuffano in dispute tremende per il possesso e la spartizione del tesoro: non si riesce mai a sapere chi l’ha visto per primo.
Altri, quando la raccolta promette bene, arrivano a rischiare nell’operazione una certa somma: mettono insieme ciò che hanno, ed entrano in due, è quanto basta, nel metrò; una volta là dentro, si arrampicano a mo’ di rettili per gli sfiatatoi, che è una difficile manovra d’acrobazia, per raccogliere quel denaro-di-nessuno, mentre uno o più compagni che stanno a far la guardia li guidano da fuori. Ci sono anche quelli che entrano senza pagare, tra le gambe degli utenti e accucciandosi sotto i tornelli.
Lo spazzino lavorava da molti anni nel metrò, sempre con gli occhi al suolo. Una talpa, un topo delle condutture. Infilzava carte sulla punta di un bastone con una punta all’estremità, e li metteva nel sacco. Spazzava milioni di cicche, per la maggior parte quasi intatte, di fumatori impazienti, grattava dalle piattaforme il chewing gum odioso, puliva i gabinetti, spargeva disinfettanti, aiutava a mettere il grasso sui binari, spolverava le vie d’una polvere bianca e misteriosa, e tutte le volte che il collega con la lanterna sprigionava un fischio stridulo – ecco il treno! – lui si rannicchiava contro la parete nera, dove scorrevano le acque d’infiltrazione, nello stretto passaggio di servizio. Gli era persino già capitato di raccogliere pezzi di cadavere, di gente che si gettava sotto i treni, e di trasportare i corpi esanimi di vecchi che improvvisamente si ricordavano di morire d’infarto, nelle ore di massimo affollamento, gli uni e gli altri sconvolgendo gli orari e provocando la curiosità casuale e momentanea dei passeggeri frettolosi. Sempre con gli occhi fissi al suolo, goffo e taciturno, come chi non spera niente dall’Alto, e infatti non sperava. La sua vita dipendeva tutta dal suolo immondo e viscoso. Nemmeno guardava il livido chiarore che scivolava giù dagli sfiatatoi verso il nerume interno, dove tremolavano lampade elettriche, tra i pilastri innumerevoli di quella foresta sotterranea metallizzata: non gli avevano mai ordinato di pulirli. Erano probabilmente il dominio esclusivo degli operai specializzati, iscritti a un altro sindacato, che lui non conosceva. Forse neanche sapeva che esistessero gli sfiatatoi. Era straniero, immigrato, come tanta altra gente, non aveva scherzato né bighellonato nella voragine avviluppante delle strade della grande città, e viveva perfettamente rassegnato alla sua oscurità. Quel lavoro lo doveva a un collega che era membro di un circolo dove comandavano pezzi grossi, ma lui di politica non capiva niente, e neppure faceva domande. Poiché era nato in Lituania, o forse in Estonia, parlava soltanto a monosillabi, e, sotto la patina unta e nera che l’aria del metrò, col tempo, aveva stampato sul suo viso, questo era diventato incolore, di una razza indistinguibile. Prima di lì aveva lavorato in scavi, una «talpa». Questo lavoro era molto migliore, nonostante fosse sotterraneo. E non doveva parlare l’inglese, che capiva appena.
Ora, all’angolo di una strada, nell’Uptown, c’è una chiesa, quella di San Giovanni Battista e del Santissimo Sacramento; per tutta l’estensione della sua facciata barocca e grigia, gli sfiatatoi del metrò formano una lunga piattaforma d’acciaio merlettato. Lì i matrimoni sono frequenti, perché la parrocchia è chic e la chiesa imponente. Il riso piove a secchiate sugli sposi, all’uscita dalla cerimonia, in un grande spreco d’allegria. Metà di quello sparisce subito attraverso le griglie degli sfiatatoi, il resto rimane sparso sui riquadri di cemento del marciapiede. Dopo i matrimoni, il sacrestano o portiere della chiesa, con la sigaretta all’angolo della bocca, spazza via il riso dentro le grate, per comodità. Probabilmente è irlandese, il riso non gli interessa, né gli interessano i piccioni: i piccioni sono roba da italiani, che, nonostante si professino cattolici, sono una specie di pagani. Quello che si è sparso sul pavimento della strada, là rimane: ci penseranno gli spazzini comunali.
C’è uno sposalizio un giorno sì e l’altro pure, soprattutto nella bella stagione, o la domenica. È uno scialo di riso, non so da dove venga quest’usanza: forse è un’offerta votiva d’abbondanza, o un simbolo del «crescete e moltiplicatevi» (come chicchi di riso). La gente si ferma a guardare, e le viene di domandare: «A quanto sta oggi il riso di prima scelta qui in paese?».
Quella pioggia di chicchi attraversa le grate, scivola giù lungo il piano inclinato dello sfiatatoio, e, se non si attacca al sudiciume appiccicoso o al chewing gum (il quartiere è poco avvezzo a masticar gomme), risalta su dentro il metrò, in uno stretto passaggio interdetto ai passeggeri.
La prima volta che vide quel riso sparso al suolo, e sentì i chicchi a crepitargli sotto gli stivali, lo spazzino non ci fece caso; li scopò via col resto dei rifiuti dentro il sacco cilindrico, quello con l’imboccatura a pinza. Tuttavia, poiché adesso passava di là con più frequenza, notò che la cosa si ripeteva. Il riso pulito e lucido brillava come le perle di mille collane sciolte nell’oscurità della galleria. L’uomo meditò: da dove veniva tanto riso? Incuriosito, alzò gli occhi per la prima volta verso l’Alto, e avvistò la vaga luce da galera che scorreva dalla parete. Ma lo sfiatatoio, capitemi bene, si torceva come una canna fumaria, e la grata, proprio quella, non gli era visibile dall’interno. Era da là, di sicuro, che cadeva il riso, come pure le monete, la polvere, l’acqua della pioggia e tutto il resto. Lo spazzino si raccolse nelle spalle, senza capire. Ignorava i riti e le raffinatezze. Al suo matrimonio non c’era stato riso di nessuna qualità, né crudo, né in budino, né in brodo di gallina.
Finché un giorno, dopo dato un occhio in giro se ci fosse stato qualcuno a spiarlo, si chinò, radunò i chicchi in un mucchietto, e con quelli si riempì una tasca della tuta da lavoro. Arrivato a casa, la moglie incrociò le mani dalla sorpresa: candido, carnaroli, di prima qualità! Giorni dopo, sempre solo solo, spazzò il riso dentro un cartoccio che aveva raccolto da un cestino dei rifiuti della stazione, e lo portò a casa. Poveri, quella dovizia di riso gli riempiva la pancia, a lui, alla signora e ai sei o sette figli. Lei si abituò alla cosa, e a volte gli diceva: «Guarda un po’ se c’è riso oggi, quello che tenevamo in casa c’è finito». Fiduciosa in quell’espediente per campare!
Lo spazzino non si domandò mai da dove piovesse tanto bendidio, soprattutto nella bella stagione, d’estate, e di domenica, al punto che sembrava addirittura una raccolta con scadenza regolare. Lo avvolgeva in un giornale o lo metteva in un cartoccio, e così lo portava alla famiglia. Ignorando che lassù c’era la chiesa di San Giovanni Battista e del Santissimo Sacramento, e, come tale, d’alta classe, non sapeva a cosa far dipendere il fenomeno. Dalla parte della radice, nel metrò, i palazzi, le casine e i templi non si distinguono.
E fu così che quella pioggia benefica, di riso brillato, carnaroli, di prima qualità, finì per dargli la nozione concreta di una Provvidenza. Il riso veniva dal Cielo, come la pioggia, la neve, il sole e i raggi. Dio, lassù nell’Alto, pensava allo spazzino, così povero e taciturno, e gli mandava quella manna per riempire la pancia dei suoi figli. Senza che lui avesse chiesto nulla. Mantenne il segreto – non è buona cosa raccontare i prodigi con i quali la grazia divina ci favorisce. Si rassegnò a essere oggetto della volontà misericordiosa del signore. Ed iniziò a pregarlo con ardore, di notte, cosa che non aveva fatto mai: mentre era disteso accanto a sua moglie. Riso del Cielo…
Il Cielo dello spazzino è la strada che gli altri calpestano.


José Rodrigues Migueis (1901-1980), Arroz do Céu, 1962

(Tradotto da Gente da Terceira Classe, Lisboa, Editorial Estúdios Cor, 1971)

STEFANO VALENTE

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