mercoledì 8 aprile 2015

IN PIEDI, COME GLI ALBERI: MANOEL DE OLIVEIRA

IN http://ytali.com/2015/04/07/in-piedi-come-gli-alberi-manoel-de-oliveira/


FRANCISCO DE ALMEIDA DIAS

Un luminoso pomeriggio d’ottobre a Roma con il Maestro portoghese morto a 106 anni il 2 aprile scorso. Il ricordo del suo interprete.

Quasi novantenne, in quella che sarebbe stata la sua ultima apparizione pubblica, linea verticale in mezzo al palcoscenico e battendo energicamente con il suo bastone sul pavimento, uno dei mostri sacri del teatro portoghese, Palmira Bastos (1875-1967), diceva ad alta voce e con alta emozione: «Morta por dentro, mas de pé, de pé, como as árvores» (morta dentro, ma in piedi, in piedi come gli alberi). Si trattava dell’opera del drammaturgo spagnolo Alejandro Casona, Los árboles mueren de pie (1949), piéce teatrale registrata dalla televisione nazionale, che per questo motivo è rimasta nella storia e nell’immaginario dei portoghesi, nonostante risalga alla lontana metà degli anni ’60.

Nel mio ricordo personale, questa frase mi fa pensare a un altro mostro sacro della cultura europea, il regista portoghese Manoel de Oliveira (1908-2015), uomo talmente straordinario che, credo, nessuno pensasse che sarebbe potuto morire. Me lo ricordo durante la sua ultima visita a Roma, nell’ottobre del 2009, in cui gli fu conferito uno dei tanti premi con cui l’Italia ha saputo dimostrare la sua ammirazione per un’opera tanto straordinaria quanto il suo autore.

La scena si sviluppa in una sala ampia, con una variegata collezione di busti classici in marmo; da una parte, due porte chiuse; dall’altra, una sorta di palchetto, che ricorda quello degli antichi tribuni; in fondo, tre ampie finestre che si aprono su uno scenario favoloso, di rovine archeologiche. Sul palco si trovano alcuni anonimi in piccoli gruppi che si aggirano di qua e di là; al centro due uomini eleganti, in veste ufficiale, circondano quello che è chiaramente il protagonista di questa pièce. Un anziano atletico, una figura omerica: occhi vivi, sorriso sereno, col suo bastone solido, solidamente poggiato per terra. Farà centun anni fra qualche settimana. L’attore principale si chiama Manoel de Oliveira, vivissimo dentro e fuori, in piedi come una quercia immensa, frondosa e nobilissima.

I due uomini intorno a lui sono l’ambasciatore Oliveira Neves e il professore Cunha e Silva, allora consigliere culturale dell’Ambasciata. L’aula è la Sala della Protomoteca, una delle più prestigiose del Campidoglio. (Per dirvi della qualità di questo spettacolo, una delle anonime comparse era niente meno che il divo italiano Alessio Boni, anche lui premiato in quell’occasione).

Ottobre a Roma è placido, luminoso – un luminoso blando, che tocca deliziosamente tutte le cose, offrendo a tutto un tocco dorato e di magia. Il Foro romano entra dalle finestre spalancate, nella temperatura tiepida della serata, con la serenità propria dell’eternità. Eppure lo spettatore si rende conto che qualcosa turba la calma di quell’ambiente aulico. La figura centrale non lo fa capire, ma sono agitati i personaggi che lo circondano, negli sguardi sempre volti alla porta, nei movimenti che automaticamente compiono. Manca qualcosa.

Mancava la figlia del regista, Adelaide Trêpa, che l’aveva accompagnato a Roma e che per qualche strano motivo – il motivo lo conosciamo, ma in teatro, come nella vita, un po’ di mistero lo dobbiamo sempre lasciare nell’aria – si era persa, non arrivava. E il maestro, blandamente, con quella stessa serenità del Foro romano, dice semplicemente: non voglio ricevere il premio prima che ci sia mia figlia.

Succedono molte piccole cose sulla scena, alcune buffe, alcune importanti, che non vi sto a raccontare per non dilungarmi e per non sciupare completamente le vostre aspettative su questo spettacolo. Mi concentro sulla scena centrale, alla quale si è aggiunto un personaggio, il mio, che ascolta il maestro e gli parla delle cose più disparate – dalla presenza storica del Portogallo a Roma a quanto lo diverta la frase di zia Augusta in Vale Abraão (La valle del Peccato): «Le donne non devono leggere libri, perché sono mooolto potenti»…

Passa più di un’ora e la figlia non arriva. In questo frattempo il gruppo è passato dalla veranda sul foro, da tutti i quattro angoli della sala, da una parte all’altra, girando, girando e parlando, un po’ come gli ateniesi all’Accademia – sempre camminando, sempre in piedi. E la figlia non arriva ancora. A un certo punto, vinto da quello stress che inaspettatamente si era creato e dal fatto di stare in piedi da tanto tempo, il mio personaggio osa rivolgere al maestro la domanda: «Ma, Maestro, non si vuole almeno sedere?», al che lui risponde di no, grazie, che sta bene in piedi. L’uomo ultracentenario stava bene in piedi e il poco più che ventenne era stanco! In piedi, in piedi come un albero.

Manoel Cândido Pinto de Oliveira era così. Portoghese di Porto – da cui prende nome il Portogallo – ha aggiunto con il suo, di nome, grandezza al nome del nostro paese. Dei suoi successi tutti sono informati. Volevo solo aggiungere un piccolo aneddoto senza grande importanza, che rivela la grande importanza di questa persona. Rimane per una prossima occasione, forse, le piccole e notevoli storie del rodaggio nel ‘99 di Parola e Utopia, sul gesuita portoghese Vieira, nella Chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi a Roma. Ora il nostro sguardo resta su questa immagine di un albero immenso, frondoso, nobilissimo. Eterno come Roma.


Post Scriptum: Alla fine il maestro ha accondisceso e si è seduto. Per pochi minuti perché, come sempre succede in questi casi, a quel punto la figlia è ricomparsa quasi subito. Siamo saliti entrambi sul palco degli oratori, il grande Manoel de Oliveira ha ricevuto il suo premio e io ho fatto da interprete improvvisato tra le due neolatine che amo di più. Indimenticabile.

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